Se il secolo breve si è concluso nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, l’ubriacatura da tecnologia pubblicizzata dalle più grandi multinazionali del mondo con il claim smart city si è definitivamente conclusa con la pandemia.

Tutti abbiamo capito che numeri, dati e informazioni, per quanto puntuali e quantitativamente importanti, da soli non servono a niente, vanno contestualizzati, studiati, capiti. E per farlo non bastano algoritmi, per quanto sofisticati, ma servono donne e uomini, con la loro sensibilità e la loro capacità di cogliere e scegliere quali dati usare, quando e come.

È l’inizio di quella che potremmo definire l’era green, quella della resilienza, quella che ha capito che le diverse tecnologie servono, ma sono abilitanti, sono degli strumenti che l’uomo deve utilizzare. E non è necessaria l’ultima release, è necessario e utile che la tecnologia sia compresa, capita e utilizzata nella maniera corretta. Non servono gadgets tecnologici che arredano con le ultime funzionalità le nostre città, le nostre case e i nostri luoghi di lavoro come fossero tanti alberi di Natale, ma servono soluzioni, anche complesse, che svolgano bene il lavoro per cui sono state progettate.

Questa la filosofia che guida l’Innovation Agri Tour che dal 2020 indaga e analizza il rapporto tra agricoltura e tecnologie con il coinvolgimento di Istituzioni, centri di ricerca, università, associazioni di categoria, aziende e liberi pensatori.

Un’ agorà virtuale dove si incontrano centri di ricerca, università, imprese e agricoltori per selezionare le innovazioni davvero utili ed evitare di perdere tempo inseguendo mode costose e poco efficaci.

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